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PRENOM CARMEN
(PRENOM CARMEN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 4 ottobre 1984
 
di Jean-Luc Godard, con Marushka Detmers, Jacques Bonnaffé, Myriem Roussel, Hippolyte Girardot (Francia - Svizzera, 1984)
 

Al contrario di altri film di Godard, PRENOM CARMEN racconta anche se vagamente, una "storia": quella di un regista piuttosto folle (interpretato in modo più che gustoso dallo stesso Godard) che si fa convincere dalla propria nipote di prestarle un certo appartamento sfitto al mare, a Trouville. Il tutto, secondo la nipote, per girarvi un film. In effetti, per nascondervi gli ostaggi presi durante una rapina. Ma il regista non pensa che al film...

Questa storia, però, ha un titolo celebre. E la sua protagonista si chiama Carmen X. Come le varie Carmen che sono comparse sugli schermi di recente, quella di Rosi, quella di Saura, anche quella dell'autore di A bout de souffle risponde quindi e innanzitutto ad un imperativo semplicemente economico: approfittare del fatto che i diritti dell'opera di Bizet/ Mérimée sono scaduti? È probabile. Ma chiaramente, un dialettico straordinario come Godard non poteva accontentarsi di questa spiegazione (né, aggiungiamo noi, il risultato finale è quello di un film pretestuoso): "Se è successo che numerosi registi si sono messi contemporaneamente a filmare delle "Carmen" significa probabilmente che questo grande mito femminile era nell'aria. Ma perché tutto ciò? A me interessano due generi di cose: quelle che non esisteranno più, e quelle che non esistono ancora. Ecco quindi la ragione di quel "Prenom": scoprire ciò che sta a monte, prima di Carmen."

Godard ha sempre girato delle storie d'amore e di morte. In questo senso Carmen non poteva sfuggirgli. O, piuttosto: Godard ha sempre girato dei film su un amore, l'amore per il cinema. "Credo che nel cinema non possano esistere che delle storie d'amore. Quando si tratta di film di guerra, è l'amore per le armi. Quando sono film di gangster, è l'amore per il furto. Noi tutti, Truffaut, Rivette, alcuni altri della Nouvelle Vague, abbiamo amato, prima di ogni altra cosa, il cinema. Prima delle donne, prima dei soldi, prima della guerra. Senza amore non esiste cinema; la televisione è fatta senza amore. Noi del cinema abbiamo bisogno di uno schermo per andare verso gli altri. Nella vita non riusciamo ad andare verso gli altri."

Tutto ciò che si può dire sulla CARMEN di Godard sta nelle poche righe che precedono. Perché il resto, il meraviglioso come anche il qualunque, è detto soltanto dalle immagini. A più di 20 anni da A bout de souffle non è soltanto il pubblico a trovare l'immagine godardiana geniale o insopportabile. Ma la critica stessa, i cosiddetti specialisti, spaziano dal delirio alla negazione. Perché il cinema di Godard fa apparire non-cinema tutto il resto che ambisce a questa definizione. Oppure, è quello di Godard che dovrebbe essere chiamato differentemente. Gli altri autori creano dei personaggi, delle situazioni, e le decorano più o meno bene, le abbelliscono cercando di raggiungere delle dimensioni diverse. Godard continua a filmare un unico soggetto, il cinema. Ed è il suo modo (si confronti la parte finale della sua dichiarazione) di sfuggire alla solitudine: in questo sta probabilmente la sua sincerità. La salvezza da quell'intellettualismo del quale così sovente ne abbiamo fatto il campione.

"Mal vu, mal dit" scribacchia su un foglio il regista che interpreta Godard: in quattro segni è la chiave di tutto il suo cinema. Significarsi attraverso uno sguardo. Riappropriarsi dell'essenza più vera, primitiva, delle cose attraverso uno sguardo reinventato. Così quegli oggetti, qualsiasi, che il protagonista percuote nella propria camera: per scoprirne attraverso il suono (basterebbero i suoni di PRENOM CARMEN per farne materia di studio di un intero anno di cinema) la consistenza, e quindi la verità. O quella mano, messa sullo schermo di un televisore acceso, che prende forma e significato soltanto quando la cinepresa si allontana in carrellata. PRENOM CARMEN è un invito ad indagare su ciò che esisteva prima di Carmen: a risalire il flusso del linguaggio, prima che esistesse la musica di Bizet (che qui, infatti, è rappresentata dalla classicità dei quartetti di Beethoven...), prima che quello della passione distruttrice diventasse il mito che conosciamo. Ma il film può essere visto in molti modi. Ad esempio come una rimessa in questione iperrealista del quotidiano: una tragicommedia burlesca che trova il suo momento magico, indimenticabile, nelle sequenze dell'assurdo assalto alla banca.

È possibile che nella carriera di un innovatore come Godard ci siano dei momenti discutibili: ma quando un regista fa passare in pochi minuti i propri personaggi dalla violenza alla sensualità, dalla morte all'amore, come in quella lotta mortale che si trasforma in amplesso amoroso, allora è difficile negargli la facoltà di riuscire ciò che è impossibile ai comuni mortali. Godard ha dapprima contestato le forme tradizionali del racconto cinematografico, il poliziesco, il film di guerra, il melodramma, la commedia. Poi ha fatto del cinema sociologico. E, nel momento della sua piena maturità artistica, da LE MEPRIS a PIERROT LE FOU, del cinema poetico. Dal cinema politico alla sperimentazione in video ha trasformato il linguaggio: piano-sequenza, collage audiovisivo, uso del colore, dialettica della citazione. Ora, dopo il suo ritorno al cinema "normale" con SAUVE QUI PEUT e PASSION volge uno sguardo al processo della creazione. E questa sua riflessione gli permette una libertà, forse anche talvolta qualche abuso, che nel cinema contemporaneo rappresenta un avvenimento straordinario e irripetibile.

Ucciso dalla programmazione, dalla finalità consumistica, dallo spreco forsennato di immagini, dalle telenovelas, teleserials e TV movies varie, il cinema (quello con la maiuscola, quello inteso come uso ragionato, sofferto, talvolta poetico dell'immagine) sta forse morendo.

Così, in PRENOM CARMEN, quando nell'apocalisse finale la protagonista chiede "come si dice quando tutti i colpevoli stanno da una parte, e gli innocenti dall'altra?", essa si sente rispondere: "Je crois que ca s'appelle l'aurore, mademoiselle".

Non è soltanto la citazione di un film celebre, l'ennesimo giochetto dell'incorreggibile istrione Ma un grido di speranza: uno dei pochi di un'arte in via di trasformazione se non d'estinzione.

Luciano Sgrizzi mi trascrive, a proposito della frase che conclude il film di Godard, la fine dell'Elettra di Giraudoux (1937): "La femme Narses: comment cela s'appelle-t-il, quand le jour se lève (...) et que tout est gaché, que tout est saccagé, et que l'air pourtant se respire, et qu'on a tout perdu que la ville brule, que les innocents s'entre-tuent, mais que les coupabies agonisent, dans un coin du jour qui se lève? (...)

Le mendiant: Cela a un très beau nom, femme Narses. Cela s'appelle l'aurore."

Giustamente, il grande musicista mi fa osservare che anche le citazioni cinematografiche possono avere un'origine letteraria. Cela s'appelle l'aurore è un film girato nel 1956 da Bunuel e ispirato ad un romanzo dallo stesso titolo, scritto da un amico di Camus, Emmanuel Roblès. Se Roblès, com'è probabile, si sia a sua volta ispirato da Giraudoux è un fatto che vedrei volentieri chiarito da un lettore altrettanto attento di Luciano Sgrizzi. Quello che non mancherà di colpire chiunque abbia visto il film di Godard è come le parole di Giraudoux sposino esattamente il slgnificato di Prenom Carmen.

Che il regista si riferisse quindi alle immagini di Bunuel o al testo di Giraudoux non ha ormai molta importanza: importa l'universalità invocata da Sgrizzi. E la sua lezione.


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